Per me fare lo psicologo è una sorta di chiamata, anche se non mi reputo il salvatore di nessuno.

Non romanticizzo questo lavoro: è sfiancante, prende un sacco di energia, responsabilizza fin troppo, fa potenzialmente sentire in colpa se i pazienti non migliorano.
Mette davanti alla crudeltà reiterata e cieca della vita.
Tuttavia, è l’unico spazio contemporaneo dove sopravvive la coltivazione del Sè. La coltivazione quella vera, quella va nel nucleo delle persone, che ne tocca le corde dell’anima.
Quando lavoro, io so che la mia stanchezza è dedicata non solo al mio mantenimento, ma ad un fine superiore: quello di cercare di aiutare le persone che sono finite nel buio.
Che sono finite nelle pastoie dei traumi, dell’ansia, della depressione, delle ossessioni.
Che, junghianamente, hanno incontrato un demone da cui non riescono a liberarsi.
Lavorare tutti i giorni con la sofferenza (o semplicemente con la voglia di conoscersi) è un’attività che è vera. E non saprei come altro dire che è bella, perchè per me, in modo un po’ verista, è bello ciò che è vero.
A me sta cosa fa stare bene. A fare un altro lavoro, che come fine ha solo l’autoaccrescimento economico ed egoico, mi sentirei morire.
Ma questo sono io. Se lei vuole raccontarmi la sua storia, può informarsi qui su come farlo.